Impazzano le serie televisive e 1992/1993, forte del nostalgismo di una certa area politica verso “Mani Pulite” ripropone il solito genuino papocchio di ingenua lettura della più cruciale fase storica del nostro paese.

Dietro al solita vincente e ben allestita miscela di intrighi personali, intrallazzi, sessualità sotto traccia o esplicita transitano dei messaggi ben precisi.

La vulgata giustizialista è condotta per manina a tifare per l’integerrimo pool di mani pulite, pungolo popolare dell’astio e dell’invidia verso i potenti dell’epoca.

Crollano gli idoli, crollano coloro che sino a ieri apparivano come potenti inavvicinabili, piovono le monete e gli insulti, in molti trovano coraggio in questo rituale purificativo.

Aspetti però sostanziali e strategici nella comprensione di quella fase cruciale vengono vieppiù trascurati.

Riavvolgiamo il nastro della storia italiana. Martoriato dalla guerra & dagli strascichi di quella interna il nascente Stato Repubblicano fonda le sua radici sui capitali Statunitensi/Atlantici, conservando un ruolo di strategico avamposto e argine al blocco comunista. Le basi americani sono la sola punta dell’iceberg di questo strategico colonialismo a stelle e strisce.

L’intraprendenza italiana, la creatività unita ai cospicui capitali che affluiscono da oltreoceano consentono una risalita rapida quanto inaspettata, maturando nel boom economico degli anni ’60, proseguito nei ’70.

Sono anni di intensi scambi commerciali e la morsa diplomatica americana verso una delle sue basi privilegiate per il controllo strategico del mediterraneo.

Una valigia di soldi, fatta fruttare con relativo talento, che generò un benessere foriero di benefici statali, pensioni d’oro, pensioni d’argento, pensioni di bronzo, tangenti, intermediazioni lautamente pagate, speculazione sulla spesa pubblica e sugli appalti. Era una marea di soldi che affluì in un paese la cui moralità era già allora vacillante.

Chi poteva gestiva il grosso della torta e spezzava alcune briciole da distribuire con il voto di scambio a chi meglio si organizzava e sapeva farsi rappresentare, sindacati, categorie, blocchi economici, una sovranità controllata dall’esterno, a guinzaglio. Tutti corrotti, tutti in piccola o grande parte complici in quello che era un sistema ormai consolidato di partecipazione al benessere.

C’era noi i cuginetti di Stalin, insediati nel tessuto giudiziario e scolastico, parte più o meno organica di quel blocco comunista che rispondeva e guardava alla lontana Mosca, o nel più subdolo dei casini giocava su più tavoli, partecipando alla festa tangentista sovrana ponendosi quale intermediario dei compagni più rissosi con l’antagonista americano. Il più illustre di questi è arrivato alla più alta carica delle istituzioni repubblicane, il più amato da Washington.

Ecco che bombardato e piegato il disegno di un’Italia bellica, coloniale e ambiziosa si consegnava al dopoguerra, dietro ad una colata di soldi, un paese ingrassato e depotenziato, una lasciva creatura che si vendeva al miglior offerente. Quando il consenso democratico, il voto di scambio, imponeva di alzare la posta si stampava denaro o si assicuravano nuove garanzie.

Vi era anche chi, leader del partito dominante di quella stagione politica maturava un sogno: di uscire gradatamente dalla stretta morsa dell’abbraccio statunitense ridefinendo alcuni limiti invalicabili di sovranità di un paese che, libero da tali legacci, auspicava sarebbe stato capace di avanzare nelle sue politiche.

La storia della diplomazia americana insegna che il sostegno è stato generosamente elargito a chi più chinava la testa alla statua della libertà, poco importa se corrotto, o meglio ancora se, vista la sua potenziale ricattabilità. I servizi segreti americani molto conoscevano degli intrallazzi di un sistema italiano fondato sulla corruzione e sul malgoverno e nulla fecero, oltre che registrare tale informazioni per farne buon uso.

Sigonella non è che la punta dell’iceberg di un sostanziale riposizionamento strategico che Washington mal digerì, presentando ben presto il conto.

Identificare nel giustizialismo militante stalinista degli eterni sconfitti gli artefici di questa defenestrazione Craxiana fu semplice. In un paese che mostrava le prime crepe di una larvata crisi economica l’ardore degli sciacalli si alimento in un soffio. Bettino Craxi fu non il grande statista che molti vorrebbero, quanto piuttosto un gigante dai piedi d’Argilla, dove le fondamenta incerte erano la discutibile moralità del sistema economico e corruttivo di cui si faceva rappresentante. Il caso Mubarak e la questione Canale di Suez sono una recente riproposizione di questo banale quanto ricorrente tema della politica colonialista americana.

La storia insegna che Sovranità deve necessariamente fare rima con Legalità, solo questo asse consolida una difesa e un argine naturale alle influenze e aspirazioni estere.

Osservando il presente sembra però di discorrere di questioni ormai trapassate. L’Europa, che un tempo desideravamo come Nazione, unita e quindi indipendente dagli influssi americani che hanno ben presto lavorato per disgregarla, sostenendo oggi le sovranità in chiave strumentale come per il recente caso della Brexit, pone nuovi interrogativi.

Il rischio è che una corrotta schiatta di vociferanti e inconcludenti amministratori di condominio venga commissariata dai portatori di principi sulla carta indiscutibili, ma nell’applicazione pratica contrari alla natura di un popolo. I loro volti sono quelli di Alexis Tsipras da una parte e Mario Monti dall’altra.

Diego Matejka

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